Ormai è risaputo che è dal cibo che deriviamo i nutrienti essenziali per fa funzionare il nostro corpo. Ma è anche dal cibo che possono arrivare sostanze pericolose a cui fare attenzione.
Si chiama acrilammide una sostanza cancerogena che viene prodotta naturalmente dalla cottura di certi alimenti di consumo comune. Questa viene generata a partire da determinate temperature elevate, in genere superiori ai 120 gradi e si manifesta con un cambiamento di stato del cibo. L’acrilammide è responsabile di alcune formazioni neoplasiche come quelle al seno, all’endometrio, alle ovaie e ai reni.
Questa sostanza tossica per l’organismo, si produce durante la cottura di alimenti come cereali, patate e caffè, se superano una certa temperatura ed è riscontrabile dalla tipica colorazione marrone che supera il classico dorato. Nelle farine integrali o a base di segale è maggiore la produzione di acrilammide. La presenza di questo elemento nel cibo è un dilemma affrontato anche dagli organismi di regolazione e controllo come l’Efsa, che se occupa da un punto di vista di legislazione per l’industria alimentare.
L’acrilammide, dunque, si forma in tutti queli alimenti che presentano una colorazione scura a seguito della cottura, ad esempio nelle patate al forno abbrustolite, nella parte superiore di un dolce o nella crosta del pane, sia che si tratti di prodotti casalinghi preparati in casa sia che si tratti di prodotti industriali.
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Sembra che sia piuttosto elevata l’esposizione a questa sostanza delle persone: secondo l’Efsa, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, il limite di assunzione trascurabile per la salute umana è un microgrammo per un uomo di 60 kg. La proporzione rende subito evidente il pericolo per i consumatori, poiché questa quantità è rintracciabile in 1 g di patatine abbrustolite o 4 g della superficie dei biscotti oppure in 3 g di pane e pizza. Questo limite, ovviamente, si riduce a seconda della persona e del peso corporeo, ad esempio nei bambini.
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Per evitare il rischio di produrre l’acrilammide, bisogna utilizzare determinati accorgimenti come il controllo della temperature di cottura e il monitoraggio dei tempi, per evitarne la formazione. Bisogna considerare, poi, che la legge in materia tollera un limite di presenza di questa sostanza superiore rispetto a quanto consiglia la scienza. A livello di produzione industriale, dunque, le aziende si limitano a rispettare le imposizioni legislative in materia e i parametri dettati dalla legge.
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